INCIPIT

Nella triade dei tre grandi Maestri del Cinquecento bresciano (Romanino, Moretto e Savoldo), Girolamo Romanino è, senza dubbio, colui che sopravanza per quantità di studi, interventi e occasioni. Ugualmente, tuttavia, permane la sensazione strisciante di una non ancora conclusa e, per così dire, pacificata soluzione critica. Romanino è l’inespresso e l’inafferrabile. Chiari e quasi facili sono i rapporti e le relazioni con il più giovane Moretto, come altrettanto palesi sono le fascinazioni venete di un Giorgione e di un Tiziano o le impressioni milanesi di un Bramantino. Ma nel suo realismo portato alle estreme conseguenze (ben oltre le sapienti e restituite muscolature o le sottane, sempre e comunque composte, di Moretto), Romanino sorprende e scandalizza continuamente i suoi osservatori. Oltre la fede buona e ortodossa di Moretto, riscaldata da una salda e confortante quotidianità senza sussulti, Romanino giunge ai miasmi della carne, agli sguardi torvi e sospettosi, ai gesti scomposti e violenti. I personaggi di Romanino, prima ancora della torsione in dolorose pose artrosiche, agiscono “ad nutum”, con la forza, cioè, dello sguardo che è il cenno del capo di contadini e paesani che non sanno e non vogliono parlare troppo. E questo movimento diventa giudizio perentorio, emanazione esperienziale. Così, pure, il teatro umano dell’artista sfonda, anticlassico e antimitico, in sconci baccanali di sete e di malattia. 

La pittura di Romanino appare come uno sbrindellamento sintattico e una stracca, umanissima sopportazione, in cui appare, chiara, una sorta di perenne e ostinata radiazione di fondo: è l’alternanza di un sentimento sempre “a metà strada tra la giaculatoria e la bestemmia” (cit. Testori). La fede, sembra indicare Romanino, non si misura nel solo grado di compostezza e di saldezza spirituale, nella simmetrica ricezione eucaristica, nella recitazione devozionale, per quanto castigata e mistica. La fede è una questione più complicata, virile, folle. È anche una faccenda di membra, di relazioni, di dubbio, di scandalo, a volte di rifiuto. Offeso per lo smacco cremonese (il licenziamento dall’opera del Duomo), Romanino divenne, forse, più furioso, ribelle e insofferente anche nella sintassi pittorica? Divenne l’abbaiatore “incagnesato”, l’esteta del Baldus, il mangiatore e il crapulone, il lunatico?
Secondo Testori, l’affaire cremonese di Romanino fu solo un gettare legna sul fuoco di un’offesa ben più antica e, per così, dire genetica: l’impossibilità, cioè, di adire al proprio tempo. Moretto, afferma ancora Testori, versa nel Caravaggio giovane, mentre Romanino rima con l’ultimo Caravaggio e con quei caravaggeschi derelitti e disperati e lontani da Roma, “poiché essa sarà già diventata ostile a quelle cose”. Romanino è oltre il proprio tempo, arriva addirittura a Rembrandt. Homo viator, pellegrino inquieto, Girolamo Romanino fa parte della schiera di coloro che “recano il loro soffrire con sé come un talismano” (cit. Montale). Con Romanino, Moretto e Savoldo la pittura bresciana del Cinquecento nasce gigante, ma forse non è eresia affermare che Romanino sia stato il vero Atlante dell’universo pittorico bresciano del XVI secolo”.

LA VITA

Girolamo di Romano di Luchino, detto il Romanino, nasce a Brescia, presumibilmente tra il 1484 e il 1487. I primi vent’anni della sua vita sono avvolti nel mistero: nulla si sa della sua estrazione sociale né da chi avesse appreso il mestiere. Si suppone, tuttavia, che fosse figlio d’arte, poiché fratelli e cugini erano anch’essi pittori. La città di Brescia, a metà strada tra Milano e Venezia, informa il giovane pittore alla maniera di Giorgione, del Bramantino e di Tiziano. I terribili eventi del Sacco di Brescia del 1512 spingono, quindi, il pittore bresciano ad abbandonare la città, con un gruppo di fuoriusciti, verso la contrada bergamasca di Tavernola, sul Lago d’Iseo. È, questo, con buona probabilità, il tempo dei ritrovati affreschi di Montisola (Oratorio di San Rocco, attiguo alla Chiesa parrocchiale di Peschiera Maraglio) o degli affreschi, fors’anche precedenti, della Pieve della Mitria, a Nave. Poi è la volta di Padova (1513) e, brevemente, di Mantova (1516). Quindi il rientro a Brescia e la prima commissione per i frati conventuali di San Francesco (Pala dell’altar maggiore, 1517). Dopo la “disavventura” cremonese che lo vede licenziato dai massari del Duomo a favore del Pordenone, nel 1521 Girolamo Romanino fa ritorno a Brescia con una serie straordinaria di opere, tra cui la “Messa di Sant’Apollonio” in Santa Maria Calchera e la decorazione della Cappella del SS. Sacramento in San Giovanni Evangelista (solo nella parte superiore).

Tra il 1524 e il 1531 l’artista volge in un complicato sperimentalismo, tra recuperi veneziani, contaminazioni con lo stile del Pordenone e riferimenti a Moretto. Oltre ai grossi centri cittadini (Brescia, Padova, Venezia, Milano, Trento, Bergamo e Verona), Romanino diviene, in questo periodo, l’originale artista delle contrade provinciali (Asola, Bedizzole, Capriolo, Montichiari, Cizzago e la Valcamonica). Nel 1531 il Romanino si trasferisce a Trento per affrescare le pareti del Palazzo Magno del Cardinale Bernardo Clesio. L’impresa segna una svolta nella vita artistica e finanziaria del Romanino. L’esperienza trentina si svolge all’insegna di una vigorosa sintassi anticlassica già sperimentata nel cantiere cremonese. Ritornato a Brescia, l’artista attende ad alcuni grandi capolavori eterodossi di chiese e palazzi del territorio (Casa Martinengo, La Chiesa di Santa Maria della neve a Pisogne, la loggia del Castello Colleoni di Malpaga, la Chiesa di Sant’Antonio a Breno e la Chiesa di Santa Maria Annunciata di Bienno). Sono anche gli anni (1539-1541) delle grandi ante d’organo, realizzate su importanti metrature di lino con la stessa libertà della pittura a fresco. Gli anni tra il 1542 e il 1546 sono, invece, quelli del dialogo con Savoldo attraverso il modo argentato e dorato dei sontuosi panneggi delle varie Sante e delle Madonne. Nel 1549 Romanino inizia una collaborazione col pittore Lattanzio Gambara, formatosi a Cremona nella bottega dei Campi. Il giovane pittore, futuro genero del Romanino (Lattanzio Gambara sposa Margherita, figlia del Romanino, nel 1556) si rivela un valente e talentuoso socio in commesse e affari, fino alla morte dello stesso Romanino (1560). Sono, questi, gli anni delle decorazioni di Palazzo Lechi (1553) e di Palazzo Averoldi (1550-1555). L’artista ultrasettantenne attende, quindi, alle tele del Duomo Vecchio (1557-1558) e alla decorazione della Biblioteca di Sant’Eufemia (1560).

L’ultima opera realizzata in totale autonomia è la “Vocazione di San Pietro” per l’omonima chiesa modenese appartenente alla Congregazione di Santa Giustina che 45 anni prima, nel monastero di Padova, gli aveva affidato la realizzazione della celebre pala oggi conservata nel Museo Civico patavino.

Madonna in trono col Bambino e Santi (1512 ca.)

E’ il 1510 circa quando Girolamo Romanino arriva per la prima volta sul lago d’Iseo. E’ probabilmente la famiglia Fenaroli di Tavernola Bergamasca, ad incaricarlo della decorazione di parte della chiesa di San Pietro.
Gli affreschi sono opere giovanili del grande pittore che qui dipinge sulla parete sinistra del presbiterio la Madonna in trono col Bambino tra i santi Giorgio, Maurizio, Pietro e Paolo che presentano gli offerenti. Nonostante la giovane età l’artista dimostra di aver raggiunto già un livello di eccellenza nell’arte dell’affresco. La perfezione prospettica dei fondali simula un’antica architettura, la vivacità e varietà dei colori, l’espressività dei volti fanno di quest’opera un vero e proprio capolavoro. L’intensità dei profili e il silenzio che avvolge la scena sembrano collegare l’affresco al clima tragico di quegli anni.
La straordinaria capacità di Romanino di guardare dentro il cuore degli uomini per coglierne la realtà, la si ritrova anche nelle “Tre teste”, abbozzate sulla parete della controfacciata. E’ probabile che i tre volti (un monaco, una donna ed un uomo) siano il frammento di una scena più ampia, forse la crocifissione, lasciata incompiuta dall’artista.
L’opera di Tavernola, uno dei primi capolavori di romanino, già mostra le eccezionali doti artistiche del grande pittore rinascimentale.

Madonna col Bambino e san Giovannino, Gesù con la Smaritana, Mensole con piatti,(1532-1533 circa)

All’interno del refettorio della foresteria, spazio destinato all’accoglienza degli ospiti e dei visitatori, Romanino realizza nel 1530 un ciclo di affreschi connesso alla sacralità del pranzo. Nella sala sono ancora visibili, in una lunetta, la Madonna col Bambino e San Giovannino e, all’interno di due nicchie ricavate nella parete settentrionale, Gesù e la Samaritana al pozzo e sulla destra una dispensa con piatti e vasellame, rara natura morta dell’artista bresciano.

La Madonna nella lunetta è raffigurata mentre guarda verso san Giovannino, che ha al suo fianco l’agnello che annuncia il sacrificio del Redentore. In basso a sinistra, la scena di Gesù al pozzo con la Samaritana, tema legato al motivo della carità e del ristoro, e a destra il trompe l’oeil di un’elegante piattaia. Tracce di altri affreschi si intravedono sulla parete di fronte, furono staccati nel 1864 e sono oggi visibili nella Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia. La cena in Emmaus e la cena in casa di Simon Fariseo. Raffigurazioni scelte, anche in questo caso, per celebrare il tema dell’ospitalità

Il nome del Romanino si lega all’Abbazia anche per un altro importante intervento, egli infatti è anche autore dei cartoni che sono stati utilizzati da fra Raffaele da Brescia per la realizzazione dei pannelli del grande leggio corale che si trova esposto presso la pinacoteca Tosio Martinengo nelle immediate vicinanze dei due grandi affreschi provenienti dalla foresteria.

Oratorio San Rocco

Il ciclo si estende a tutta altezza su tre pareti, sulle quali si ripete la raffigurazione di alcune figure maschili immerse in fondali paesaggistici delimitati da pilastri a finti marmi e da una trabeazione superiore con fregi a grottesche. Sulla parete a sud/est, quella meglio conservata, sono raffigurati San Rocco, San Sebastiano e un terzo martire identificato come San Pantaleone, inquadrati da finte architetture e alle loro spalle è dipinta quella che sembrerebbe essere Monte Isola circondata dal lago e dalle tipiche barche. San Sebastiano è legato a un albero e trafitto da una freccia, San Rocco impugna il bastone dei pellegrini, e San Pantaleone, medico che esercitava la professione senza chiedere compenso. Sulla parete di destra una figura maschile in piedi posizionata sulla soglia di un edificio. Sulla parete di sinistra è visibile San Rocco, verosimilmente in posa genuflessa, sul limitare di un bosco.

Resurrezione

La pala raffigurante la Resurrezione di Cristo di Gerolamo Romanino (Brescia circa 1484/1487-1560) è senza dubbio il dipinto più prezioso custodito nella terra di Capriolo. La tavola lignea, realizzata intorno al 1526, è stata eseguita espressamente per la chiesa di s. Giorgio e fin dall’inizio orna l’altare del Santissimo Sacramento. Nel quadro di Romanino vediamo, sullo sfondo di un’alba di fuoco, Gesù Cristo risorgente dal sepolcro. Testa leggermente piegata, mano destra alzata in atto benedicente e sinistra a reggere il vessillo. Ai suoi piedi ci sono quattro soldati in armature e cappelli piumati, due dei quali preda di un sonno profondo. Romanino infatti, forse per la prima volta nel panorama artistico bresciano del ‘500, ci presenta una realtà come non si era mai vista prima, una realtà ben lontana da quella a cui certa pittura – aulicissima certamente – ci aveva abituato. E tutto questo lo fa col modo che più gli appartiene e cioè in maniera schietta, selvatica, popolare o per dirla con le parole di un grande storico dell’arte: “dialettale”. Vediamo così che il nostro Cristo “di provincia” non è più apollineo e trionfante come ad esempio nello scomparto centrale del Polittico Averoldi di Tiziano (riferimento immediato per la pala capriolese) bensì pare più un ragazzotto rubato a qualche lavoro nei campi e non troppo desideroso di librarsi in cielo: un occhio è ancora mezzo chiuso dal sonno e i piedi (almeno il destro) son ben piantati sul sepolcro! Lo stendardo che regge non si gonfia trionfalmente nel vento per la gloria di Dio ma pare più un umile panno di casa, moscio e ben attaccato al suo bastone. Così pure gli armigeri al suolo, specie di “armata Brancaleone”, sembrano perdere qualsiasi sfarzo con quelle bocche aperte dal tanto ronfare e i ceffi grotteschi vicini a certa pittura nordica. E che dire poi degli effetti luministici e dei contrasti meravigliosi che attraversano la pala! A partire dall’alba infuocata che squarcia le tenebre sullo sfondo, fino alla densità materica del corpo del Signore o alla luce bianca (alternata alle ombre scure delle pieghe) che bagna lo stendardo o a quella che si riflette sulla corazza del soldato di spalle in primo piano.

Un vero e proprio capolavoro insomma nel quale Romanino ci presenta un nuovo modo di intendere la realtà: certamente meno solenne ma al tempo stesso più vera e concreta; una realtà dove alla bellezza si sostituisce la verità per quanto essa possa essere rude, pungente, tormentata.

Storie di Daniele (1536/37)

Le pareti del presbiterio conservano i capolavori pittorici del Romanino, che risalgono al 1535. L’intero ciclo riconduce agli episodi del libro biblico del profeta Daniele.

Sulla parete di fondo, ai lati della grande pala di Calisto Piazza del 1527 raffigurante la Madonna in trono con Bambino tra i SS. Sebastiano, Rocco, Antonio abate e Siro, è raffigurato un loggiato con vari personaggi.  L’impostazione è simile su tutte le pareti del presbiterio, con le scene sacre nella parte inferiore e le architetture in cui sono collocati i personaggi che guardano la scena, nella parte superiore; al centro invece la scena principale. I personaggi che osservano le vicende hanno volti reali, volti cui Romanino riesce a dare estrema drammaticità grazie alle sue pennellate. Li vediamo commentare e osservare, oltre alla scena, anche lo spettatore invitandolo ad entrare nella scena stessa.

Scene della vita della Vergine (1541 ca.)

A Bienno, nella chiesa di Santa Maria Annunciata, è presente uno dei più noti cicli pittorici di Romanino, l’ultimo lavoro in Valle Camonica, dopo Pisogne e Breno. Qui l’artista bresciano affresca le pareti del presbiterio intorno al 1540 con scene della vita della Vergine. Sulla parete di destra la scena dello Sposalizio della vergine e su quella di sinistra la Presentazione di Maria al tempio.  Anche in quest’opera di Romanino i volti presenti nella scena hanno un aspetto “paesano”, come se tutti i cittadini di Bienno fossero presenti al rito nuziale.
Nella scena della “Presentazione di Maria al Tempio”. Al centro della loggia, in alto, il Sommo Sacerdote che attende la piccola Maria. Anna e Gioacchino, ai lati della balaustra. Sparsi nella scena diversi animali: il coniglio tenuto da un bimbo, una tortora, un cagnolino e un vitello.

Affreschi in santa maria della neve

Il lavoro che Romanino svolge a Pisogne tra il 1532 e il 1534 dà inizio alla fase camuna dell’artista, che lo porterà successivamente anche a Breno e a Bienno. Un grande ciclo di affreschi di imponente teatralità, sul tema della Passione, decora la Chiesa di Santa Maria della Neve. Battezzata come “La Cappella Sistina dei Poveri”, la chiesa di Pisogne è considerata uno dei punti più alti della poetica di Romanino.

La volta, l’arco santo, le pareti laterali e la controfacciata sono un tripudio di volti e corpi spesso grotteschi, ispirati alla gente del posto. Sono andati invece perduti gli affreschi quattrocenteschi, pertanto non attribuibili a Romanino, che ricoprivano l’abside, e quelli sulle pareti esterne. Di questi rimangono solo due scene, staccate, riguardanti l’Adorazione dei Magi, conservate nell’abside.

La parete sinistra rappresenta i drammatici momenti della Passione, mentre su quella di destra, nella vela della prima campata, si trovano sequenze della Resurrezione. Tutti gli episodi raffigurati fanno da corollario al tema, grandiosamente espresso sulla controfacciata, della Crocifissione. Nelle vele delle tre crociere vi sono 24 figure, estremamente “michelangiolesche”, di profeti, re, patriarchi e sibille. Otto veggenti decorano i due archi che separano le tre campate. Sull’arco santo si ammirano il Padre Eterno e l’Annunciazione, con l’Arcangelo Gabriele a sinistra e la Vergine a destra; in basso, la Discesa dello Spirito Santo e la Deposizione al Sepolcro. Sulle pareti i momenti principali della Passione, Morte e Resurrezione di Cristo.

L’affresco della controfacciata è il culmine dell’intero ciclo; la grande e drammatica Crocifissione. Una scena concitata e piena di violenza, una narrazione molto distante dalle forme idealizzate del classicismo rinascimentale da cui Romanino si allontana sempre più entrando in contatto con luoghi, persone e una spiritualità più semplice e popolana.

Al centro la figura del Cristo crocifisso e ai suoi piedi una Maddalena dalle braccia e dal volto di contadina ad abbracciare disperatamente la croce. Ai lati della croce di Cristo le figure dei due ladroni, mentre sotto le croci la scena è colma di figure varie e scomposte.